Nei lavori recenti di Andrea Neri si trova un’interessante molteplicità di atteggiamenti che ne rivela la particolare struttura di pensiero tradotta nella forma dell’opera. Il primo e addirittura scientifico: Neri presenta alcune strutture che sembrano rivelare la composizione fisica e biologica dei vegetali, una sorta di vita segreta delle piante raccontata al microscopio ed osservata con tutta la disposizione a meravigliarsi. Utilizzando elementi di botanica vera e propria, ma senza alcun rimando diretto al reale, Neri trascende l’aspetto del naturalismo per rivolgersi invece alla struttura nascosta, a qualcosa che normalmente non si dice, ma che poi, ci si accorge, contiene delle informazioni preziose per la trasformazione in atto, dall’elemento naturale all’opera. Lo scheletro di una pianta è meraviglia visiva, ed anche si fa struttura e contiene in sé qualità pittoriche proprie, di colore ed immagine. Una specie di positivismo scientista del prelievo che si va via via trasformando in qualche cosa di magico, sottilmente inquieto e fantastico.
Il secondo nodo, quello sul quale si basa poi gran parte del percorso artistico di Neri, riguarda invece il modo romantico, se non alchimistico, di porsi all’opera. Molti dei suoi lavori recenti sono strutturati in trittico, e sappiamo dell’importanza magica che ha assunto il numero Tre dell’interpretazione che dell’alchimia ha dato l’arte - per esempio nella “Melancholia” di Durer -. I nomi delle opere, meglio chiamarli nome che titoli, sono misteriosi, probabilmente appartenenti ad una sfera biografica dell’artista che non intende svelarsi, quanto semmai “custodirsi allo sguardo” e all’attenzione. I materiali - carte sovrapposte, interventi con legni e ad encausti - ci sembrano misteriosi al punto che l’effetto finale è quanto di più lontano si può pensare dalla sfera naturalistica: e di un eventuale svelamento, di come siano fatti questi quadri, non è dato parlarne, meglio lasciare aperto l’interrogativo e le ombre. L’uso e l’attenzione per il nero qualifica l’andar verso l’oscurità simbolica. Il nero non è l’assoluto oscuro che si contrappone al bianco è piuttosto un nero di terra, caldo e fertile, il positivo nero come ventre della terra in cui si opera la rigenerazione del mondo, simbolo nero nell’antico Egitto e nell’Africa del Nord di fecondità terrena ed aerea, il nero delle nubi cariche di pioggia, il nero caldo della terra arsa dal sole che dal sole prende sfumature dorate. Quella che potrebbe sembrare una normale inclinazione alla via del mistero e dell’oscurità del simbolo magico si va dunque in parte contraddicendo, perché l’opera di Neri è in fondo comunicativa, richiama valori sensoriali estremamente conoscibili, dalla voglia di toccare le superfici per catturarne la consistenza, all’odorarne gli aromi altrettanto misteriosi, resine o profumi, ascoltarne gli echi lontani e, naturalmente, comprenderne il senso con lo sguardo, con il piacere della visione privata. Abbiamo sì l’immersione nella sfera del simbolo, per cui si può condividere la lettura dell’opera di Neri che diede Enzo Biffi Gentili nella sua “Histoire du Ciel” (1) utilizzando le parole di Luigi Carluccio “Ma una visione più ampia (dell’arte) consente anche di percepire oltre il festoso barbaglio solare e lo schermo delle brillanti impressioni di luce e di colore, il campo tanto più vasto delle zone che solo per contrasto chiamo zone dell’ombra”. Infatti del simbolo Neri mostra di non adottare quei criteri e quelle forme di cripticità che spesso ci respingono invece che attrarci al mistero.
Per un’analisi infine formale dell’opera di Andrea Neri, credo che si possa parlare in più di un senso di astrazione, considerando la vastità del termine per come si propone oggi. Astrazione di fatto pittorica anche se ugualmente proiettata in una dimensione installativa e di confronto serrato con lo spazio, e con in più abbondanti stratificazioni e curiosità verso materie ed elementi estranei. Un’astrazione che si riferisce ad una tradizione mediterranea e calda, che come ha scritto Demetrio Paparoni “(la neoastrazione italiana) si astiene dal recidere in modo netto o eclatante il suo rapporto con il passato, vivendolo in molti casi come un privilegio storico: chi ha un’eredità non ha motivo di disperderla nel nulla;” (2).
È dunque piuttosto lontana dall’approccio del concettuale astratto per esempio americano; e invece ricca di riferimenti alla sua storia, al suo essere ed alle sensibilità italiane.
Luca Beatrice
(1) Cfr. “Histoire du ciel” in “Dioce”, cat. mostra sedi varie, Torino aprile 992 (a cura di Enzo Biffi Gentili). La citazione di Luigi Carluccio è tratta da “Il sacro e il profano nell’arte dei simbolisti”, Torino 969.
(2) Demetrio Paparoni, “Italia-America. L’astrazione ridefrnita”, cat. mostra Galleria Nazione Arte Moderna, San Marino giugno-settembre 993, pag. 11.