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Da metà degli anni ottanta Neri lavora abitualmente il proprio dipinto come fosse un murale, operando infatti ad affresco ed encausto su tamburato, e dunque agendo pittoricamente su una superficie materialmente forte e scabra altrettanto che il muro. E vi lavora enunciandovi un universo prezioso e complesso di segni e tracce, di affioramenti carichi di accenni simbolici, quando non vere e proprie enunciazioni di simboli archetipi, in intense suggestioni memoriali. La ricchezza del segno gli viene certamente anche da una esperienza incisoria molto impegnata e sapiente, e che è del resto un altro aspetto rilevante della sua professionalità artistica rigorosa e ispirata.
Anche quando praticava una figurazione essenziale ed evocativa, nei primi anni Ottanta, e sempre parallelamente ad un impegno incisorio molto consistente, quelle immagini evocative e distanti erano proposte entro una contestualità matericamente sensibilizzata, quasi graffite. L’immaginario di Neri è dunque sostanzialmente fondato su un processo di lievitazione memoriale, di scrittura segnica evocativa.
“L’essenziale è solcato da una riconoscenza”, dice. E una tale “riconoscenza” si realizza attraverso la capacità evocativa momoriale espressa dal segno inciso, scritto, nella materia, che appunto è come muro. Il muro è insomma la pagina sulla quale Neri esercita il proprio processo di “ri-conoscenza”, tramite il quale dilata la dimensione temporale dal remoto al presente, e suppone un destino, ammortizzandovi dunque anche un possibile futuro. Confessa: “camminare su un lastricato di 2000 anni con la coscienza che quel segno è importante come la tua traccia di oggi”. Neri in effetti risolve il proprio dipinto in una sorta di palinsesto provocato. Ed è qui la differenza fra il suo particolare ricorso alla dimensione del muro rispetto a quanto ne trassero gli artisti informali negli anni Quaranta-Cinquanta: da Dubuffet, aWols, a certo Burri, a Fontana stesso (almeno nei suoi “gessi”), a Tapies, a Rotella (e fu André Pieyre de Mandiargues a sottolineare un tale denominatore in un testo allora abbastanza famoso in “XX° Siede” nel 958). Ma il muro informale, estremo ridotto limite esistenziale d’una configurazione urbana, palinsesto di vissuto esistenziale e dunque di ricorrenze temporali, anzitutto individuali e persino private, testimone dell’unica storia esistenzialmente possibile, si qualificava come tale appunto attraverso l’accumularsi dei segni, il loro stratificarsi accidentale, esperienziale, dominato dunque in certo modo dal caso, testimoniale dunque essenzialmente in quanto capace di traccia relittuale, d’esperienza e di tempo. Al contrario il palinsesto che Neri viene a proporre non si è costituito nel tempo, né ne testimonia l’esistenziale fluenza impressavisi, in quanto è invece un unilaterale accumulo di segni che la superficie muro registra e memorizza. Di segni e accenni simbolici che l’immaginazione del pittore vi imprime evocativamente e in certo modo costruttivamente, facendosene qualcosa appunto come una pagina di registrazione di tracce di umori, ricordi, affioramenti memoriali, remote suggestioni magiche, in un continuo rimando di senso fra attualità e remotezza evocativa del segno stesso e del simbolo. E il comportamento di Neri dunque risulta in certo modo piuttosto attivo che non constatativo. Non propone la lettura d’una traccia relittuale di memoria del vissuto, quanto di segni di un’attivazione di un possibile circuito memoriale, ove conta non tanto dunque la denuncia d’una condizione (che nell’esperienza informale era appunto la condizione esistenziale dell’”esserci”, richiusa in se medesima) in quanto la sollecitazione d’una possibilità.
Esattamente della possibilità di recuperare uno spessore di memoria, che restituisca al vissuto e al vivibile un proprio spessore e una propria capacità di dominio temporale, rispetto all’appiattimento quotidiano dell’universo del pragmatismo consumistico.
Né mi sembra interessi a Neri la mitizzazione d’una primarietà originaria, quanto piuttosto la strutturazione d’un universo segnico e simbolico capace di riordire trame di conoscenza; operando egli non in una pre-coscienza appunto originaria (cosmogonica, prenozionale, magmatica; come fu la riattinta condizione informale), quanto in una consapevolezza della reta informazionale tipica dell’attualità sociologica, soltanto spiazzata da un compito di inerenza al destino di un uomo massificato, ad “una dimensione”, e disposta invece al recupero di una capacità onnicompresiva (in certa misura) di memoria dell’uomo di oggi. Di qui dunque la distanza del muro di Neri  dal muro informale, del resto ormai “storico”. E del resto l’evidente matericità dei suoi dipinti non sovrasta i segni che esibisce, ma li serve; serve cioè alla loro registrazione. Come dire, paradossalmente, che i segni non sono del muro, ma dell’artista, per il quale il muro è appunto pagina utilizzata e non circostanza subita. E si dice muro naturalmente intendendo la particolare natura materica muraria del suo fare pittorico. Del resto per Neri non conta il muro come tale,’ma la capacità memoriale di segni e simboli che quella superficie è in grado di accogliere e di esibire, meglio di altre altrimenti possibili. Certo del muro Neri assume anche la inderogabile frontalità, ma anche questa a ben vedere è piuttosto tipica della pagina rispettata come superficie che non del muro medesimo quale limite invalicabile ed estremo d’una riduzione esistenziale. E quella frontalità si rivela invece piuttosto propria di una sorta di metodologia immaginativa iconica, essenzialmente ostensiva; che d’altra parte è anche lo strumento per una sottrazione rispetto alla dimensione orizzontale del tempo, inteso nella sua unilateralità storica, insomma come mero presente. Se nei suoi dipinti di tre-quattro anni fa le immagini di suggestione simbolica si disponevano in modo più largo, con inserti anche oggettuali, e con a volte protrusioni, di fili, aste, o altro, quasi a misurare una distanza fra spazio d’osservazione e superficie matericosegnica stessa, nei più recenti il segno si è fatto come più minuzioso e intricante, più funzionale ad una suggestione molteplice di spessore memoriale. Nei dipinti più recenti infatti il segno non circoscrive più situazioni di traccia o presenze d’arcane forme di accenno in qualche modo generale, ma si è fatto più puntualmente relativo ad un universo di suggestioni simboliche e segniche maggiormente circostanziato e al tempo stesso maggiormente capace di suggestioni universali. In quella superficie come di muro è infatti l’universo, il cielo, il cosmo, quanto tuttavia anche gli umori e gli amori dell’artista. Pur senza alcun possibile riscontro di citazione, non credo sia difficile riferire l’istintiva vocazione ad una dilatazione memoriale propria dell’immaginazione di Neri all’”imprinting” di un dialogo con l’ambiente ove si è formato e tuttora vive, che è il singolare impasto di memorie medioevali e romane classiche che quotidianamente incontra a Terracina, dominata dall’un tempo maestoso tempio di Giove Anxur. Memorie non a caso impresse proprio in una dimensione materica muraria, di quotidiana familiarità. E direi che Neri in qualche misura ne sia venuto prendendo ora maggiore coscienza, così che il suo già forte materismo si è venuto orientando verso un’esplorazione più specificamente mirata a traguardi simbolici circoscritti, direi tenendo verso uno scandaglio di affioramenti archetipi remoti. Così che la stessa dimensione memoriale sembra oggettivarsi dalla sfera individuale ad una sorta di coralità remota. E intanto la materia messa in opera come pagina ove iscrivere segni e simboli di capacità memoriale si è fatta più secca, svincolando dal rischio di preziosità seduttiye quanto pericolose, rastremando la propria presenza in funzione appunto dell’enunciazione almento affiorante di quelle presenze simboliche. E con grande rigore.

Enrico Crispolti